In Italia e nel mondo crescono gli home restaurant, ossia case private che si aprono ad estranei invitati a cena a pagamento. Un modo conviviale per fare business secondo i principi della cosiddetta ‘sharing economy’. Chi lo ha detto, infatti, che la tecnologia crea solitudine? Cucinare invitando attraverso il web sconosciuti a casa propria sta diventando una vera moda alla portata di tutti. Non servono, infatti, particolari attrezzature, dotazioni o permessi per iniziare questa attività.
Nella nota del 10 aprile 2015 del Mise, infatti, gli home restaurant vengono equiparati alle attività di somministrazione di alimenti e bevande, caricandoli così di un iter burocratico che, di fatto, metterebbe fuorilegge quelli già esistenti. «L’attività in discorso – precisa la risoluzione n. 50481 del ministero – anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela. Infatti, la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo, quindi, anche con l’innovativa modalità, l’attività si esplica quale attività economica in senso proprio».
Di conseguenza, si dovrebbero applicare, secondo il Mise, le disposizioni di cui all’articolo 64, comma 7, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e s.m.i.: i soggetti che vogliono fare home restaurant, in buona sostanza, dovrebbero presentare la Scia o richiedere l’autorizzazione, se l’attività è svolta in zone tutelate, dovrebbero avere un piano Haccp, impianti e strutture a norma e via dicendo.
In elaborazione una legge dedicata agli home restaurant
Da più parti arriva quindi la richiesta di regole certe, per tutelare sia chi vuole mettersi alla prova con un home restaurant, sia per chi decide di recarvisi. E un disegno di legge ci sarebbe già, il Ddl 1271 del 27/02/2014 sull’Home Food presentato al Senato, ma mai discusso. Ora una petizione online su Change.org ne chiede l’approvazione in tempi brevi per mettere ordine e stabilire un distinguo tra le due attività.
Ecco cosa prevede il ddl:
• L’utilizzo della propria struttura abitativa, anche se in affitto, fino ad un massimo di due camere, per un massimo di venti coperti al giorno;
• I locali della struttura abitativa devono possedere i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti;
• L’esercizio dell’attività di home food non costituisce e non necessita alcun cambio di destinazione d’uso della struttura abitativa e comporta l’obbligo di adibirla ad abitazione personale;
• Ai fini dell’esercizio dell’home food il proprietario è tenuto a comunicare al comune competente l’inizio dell’attività, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato;
• Non è necessaria l’iscrizione al registro esercenti il commercio;
• Il comune destinatario della comunicazione provvede ad effettuare apposito sopralluogo al fine di confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di home food;
• All’attività di home food si applica il regime fiscale previsto dalla normativa vigente per le attività saltuarie.
Pertanto, ad avviso della scrivente, anche nel caso dei soggetti richiamati nel quesito, considerata la modalità con la quale intendono esercitare, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 64, comma 7, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e s.m.i..
Ciò significa che, previo possesso dei requisiti di onorabilità nonché professionali di cui all’articolo 71 del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e s.m.i., detti soggetti sono tenuti a presentare la SCIA o a richiedere l’autorizzazione, ove trattasi di attività svolte in zone tutelate.
Approfondimenti su Food24 de Il Sole 24 Ore
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